“Buy the rumors, sell the news”: funziona ancora?

“Buy the rumors, sell the news”. Il vecchio adagio degli operatori di Borsa, “compra sulle voci, vendi sulle notizie”, riconosce la forza con la quale i “rumors”, le voci, condizionano i prezzi di Borsa e, nello stesso tempo, come le notizie possano conseguire l’effetto opposto.

Una “regola” antica che induce i trader a intensificare l’operatività nel periodo che precede la notizia e che ben si attaglia alle attuali condizioni dei listini europei. La paura dell’escalation in Medio Oriente è prestamente rientrata (forse troppo prestamente), i mercati si orientano sulla bussola dei tassi, l’ago punta diritto al taglio atteso nell’appuntamento di giugno della Banca Centrale Europea. Ma una volta scontata la notizia, cosa faranno dopo?

I venti freddi che arrivano dalle sponde del Potomac cambiano le aspettative di una azione analoga da parte della Fed che ha appena pubblicato il suo Rapporto sulla stabilità finanziaria: “il rischio che pressioni inflazionistiche persistenti portino a un orientamento della politica monetaria più restrittivo del previsto rimane il rischio citato più frequentemente, menzionato da quasi tre quarti dei partecipanti al sondaggio. La percentuale di partecipanti al sondaggio che menziona l’incertezza politica come un rischio per il sistema finanziario è rimasta a poco meno di due terzi, significativamente più alto rispetto al rapporto di ottobre”.

Parole che sono una doccia fredda sui mercati che si erano riscaldati al registro accomodante e possibilista adottato da Jerome Powell e che fanno aumentare le scommesse degli operatori su un euro in ulteriore indebolimento.

La scorsa settimana è uscito anche il rapporto annuale della Banca Centrale Europea sul 2023. Nella presentazione alla Commissione per i problemi economici e monetari del Parlamento europeo, il vice di Christine Lagarde, Luis de Guindos, ha riaffermato che, in assenza di sorprese o shock “sarebbe opportuno ridurre l’attuale livello di politica monetaria restrittiva”. Sullo stesso registro il governatore della Banca di Francia, “la questione è il prossimo Consiglio direttivo che si terrà all’inizio di giugno… e qui, a meno di una grande sorpresa, dovremmo tagliare i tassi perché ora siamo abbastanza fiduciosi e sempre più sicuri del percorso disinflazionistico nell’area dell’euro”, ha dichiarato Villeroy de Galhau.

A differenza degli Stati Uniti il Vecchio Continente non se la sta passando bene, “stagnante per qualsiasi standard” scrive l’Economist. La pandemia, la guerra ai confini e lo sconquasso del mercato dell’energia hanno contribuito a una crescita che negli ultimi dieci anni è stata la metà di quella americana.

Il rallentamento della Cina è capitato nel momento peggiore, i Paesi dell’Unione hanno bisogno di crescita economica per reggere i programmi di maggiori spese nella difesa e nella transizione energetica (perlomeno il picco dello shock energetico è alle spalle e il prezzo del petrolio non sta incorporando le tensioni geopolitiche).

All’orizzonte, nel caso del ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca, si profila anche la minaccia di nuovi dazi sulle esportazioni. Nel corso del primo mandato Trump si è dimostrato molto sensibile ai saldi commerciali bilaterali, il surplus commerciale dell’Europa ne fa un ottimo candidato per tornare nel mirino di Trump che in più occasioni ha espresso l’intenzione di fissare una tariffa unica, al 10%, su tutte le importazioni.

Rispetto agli Stati Uniti l’Europa paga il pegno di una struttura industriale asimmetrica, pochi campioni continentali e una moltitudine di imprese di piccole e medie dimensioni, strutturalmente più impermeabili all’innovazione.

Anche per questo, per favorire l’accesso ai finanziamenti extra-bancari, Mario Draghi ha esortato ad accelerare il disegno di un mercato unico dei capitali come “parte indispensabile della strategia complessiva per la competitività”. Draghi ha ricordato anche che l’Europa ha l’economia più aperta del mondo ma anche la più vulnerabile, priva “di una strategia generale su come rispondere in molteplici aree”, non ancora pronta per il “mondo di domani”.

Ma tra molte ombre ci sono anche luci

I consumi si stanno riprendendo e lo shock energetico è alle spalle, i prezzi dell’energia resteranno volatili ma siamo lontani dai picchi di due anni fa. L’inflazione dovrebbe continuare ad attenuarsi, almeno un poco, pur restando una variabile volatile e non prevedibile: i salari reali cresceranno a sostegno dei consumi e i prezzi dell’energia fanno scendere i costi delle bollette per famiglie e imprese.

Non sarebbe la prima volta che la resilienza dell’Europa viene sottovalutata, ricorda l’Economist.

Tra i settori da osservare vi è quello bancario che conserva ancora valore. Nella buona salute del settore bancario europeo trovano interessanti opportunità anche gli obbligazionisti, in particolare nel mercato del debito subordinato che, in quanto più rischioso, offre rendimenti più alti; in marzo c’è stato l’ulteriore restringimento degli spread e, nonostante la nuova narrazione sui tassi americani, le prospettive restano positive.

Il settore energetico si presenta a buon mercato. Le aziende coinvolte nella transizione energetica e i produttori di apparecchiature elettriche destinate alle reti di trasmissione sono da guardare con attenzione perché beneficeranno degli ingenti investimenti programmati.

Anche l’automotive è direttamente investito dalla decarbonizzazione, gli storici vantaggi competitivi nella motoristica e nella meccanica hanno costituito una sorta di anestetico verso l’innovazione e la ricerca e sviluppo di nuovi modelli, il fiore all’occhiello dell’industria europea è stato preso in forte ritardo e superato dai concorrenti americani e cinesi. Le fabbriche di auto dovranno investire pesantemente in nuovi impianti e nuove attrezzature: anche in questo caso ci saranno vincitori e vinti da tenere d’occhio.

L’Europa è più conveniente rispetto agli Stati Uniti dove il P/E Shiller, ovvero il multiplo dei prezzi e degli utili corretto per il ciclo, è attorno a 33 volte mentre in Europa lo stesso indicatore è attorno a 18,5. Investire nelle azioni europee non significa azzerare o vendere le azioni USA, più semplicemente si tratta di allargare la diversificazione e compensare così il rischio del listino americano, dove il premio al rischio è schiacciato a minimi storici, è insidiato dal rendimento del Treasury, è vulnerabile nella valutazione e nella concentrazione.

A cura di Carlo Benetti, market specialist di GAM (Italia) SGR