“Il panico di natura finanziaria innescato dalla pandemia e la battuta d’arresto dell’economia globale sono stati gestiti grazie alle manovre di bilancio e agli interventi di politica monetaria da parte delle banche centrali. Dopo aver registrato un crollo durante la fase più acuta della crisi, il dollaro sta attualmente beneficiando di una forte spinta sulla scia di una flessione del 9% dai propri massimi (e del 3% da inizio anno) del Dollar Index. Sono varie le ragioni per cui la valuta più ricercata dalla fine della crisi del debito europeo (2011/2012) non rappresenti più la priorità degli investitori”. E’ quanto afferma Benjamin Dubois, Head of Overlay di Edmond de Rothschild AM. Che elenca di seguito le ragioni per cui il dollaro è messo attualmente in secondo piano.
Il dollaro è l’unica valuta al mondo ad avere uno status piuttosto singolare di “rifugio sicuro“. Infatti, la valuta statunitense è molto ricercata in fasi di stress, come di solito lo sono il franco svizzero e lo yen, ma senza le stesse caratteristiche macroeconomiche. Tuttavia, il dollaro ha svolto il suo ruolo di bene rifugio sicuro durante la pandemia; più precisamente, ha beneficiato del suo status di valuta propria del commercio globale. Al culmine della crisi, il dollaro è salito alle stelle per i timori di una carenza, in primo luogo a seguito di una corsa al Treasury, asset considerato privo di rischio, e in secondo luogo perché diverse nazioni e società chiedevano liquidità in dollari per poter continuare ad operare durante la fase di maggior panico finanziario.
La Federal Reserve ha effettuato un taglio dei tassi di natura emergenziale dell’1,5% all’inizio della crisi (un intervento che non si vedeva dalla crisi finanziaria del 2008) per poi reagire rapidamente ai problemi di liquidità che colpivano la valuta statunitense. Dinanzi ai primi segnali di crollo del mercato, la Fed non ha perso tempo a effettuare un’iniezione di liquidità senza precedenti attraverso il suo mercato Repo2 di New York, in concomitanza con l’apertura di linee di swap con la maggior parte delle Banche centrali su scala globale, con l’obiettivo di alleviare gradualmente la tensione sul mercato dei futures.
Dollaro, inflazione e tassi reali in attesa
Il calo dei rendimenti dei titoli di Stato statunitensi, innescato da una crescente domanda di asset privi di rischio come il Treasury porterà automaticamente a un calo dei tassi reali, sempre che le previsioni sulla traiettoria d’inflazione non cambino. Tuttavia, dall’apice degli sconvolgimenti finanziari dello scorso marzo, le previsioni d’inflazione sono tornate ai livelli pre-crisi (circa l’1,9% annuo a 5 anni) secondo le stime di Bloomberg, mentre i rendimenti statunitensi sono rimasti al minimo storico (0,3% a 5 anni3). Basta fare due calcoli per identificare un tasso reale a 5 anni del -1,5%, il livello più basso dalla fine del 2012. All’epoca l’indice Dxy, utilizzato per confrontare il valore del dollaro con un paniere di principali valute principali, era di circa il 17% più basso di oggi (30/09/2020). Questa discesa dei tassi reali in territorio negativo sta esercitando un impatto diretto su qualcosa che è stato un fattore fondamentale nella performance del dollaro rispetto alle valute del G10 a partire dal 2012.
La Federal Reserve ha reagito durante l’ultimo meeting a Jackson Hole, con Powell che ha annunciato che la Fed puntava attualmente a un’inflazione “media” del 2%, invece di fissare un obiettivo fisso del 2%, consentendo dunque in questo modo una maggiore flessibilità. Ciò faceva intuire anche una maggiore tolleranza da parte dai membri del Fomc nel caso in cui se questo limite fosse stato superato. Durante lo stesso intervento, Powell ha individuato “in anni” l’orizzonte temporale, lasciando aperta la porta ai tassi bassi (negativi?) negli Stati Uniti ancora per qualche tempo.
Incertezza presidenziale
Biden è in testa ai sondaggi. In termini di politica, gli esiti di una vittoria democratica saranno probabilmente più vicini alle esigenze sociali e meno favorevoli al mondo delle imprese, con un aumento dei tassi di attività e della spesa pubblica. Crediamo che tutto ciò potrebbe danneggiare l’economia e l’immagine dell’America come la culla del business agli occhi degli investitori stranieri, rendendo automaticamente il Paese meno attraente dal punto di vista economico, tanto più sulla scia del recente crollo dei tassi.
Tuttavia, anche nel caso di rielezione di Trump, il dollaro probabilmente non se la caverebbe molto meglio: il suo comportamento e la sua imprevedibilità rimangono problematici per adottare un orizzonte di lungo periodo in materia di investimenti, anche dinanzi alla conferma da parte della Fed del suo sostegno all’economia per tutto il tempo necessario.
Gli investitori sono per loro stessa natura sensibili a qualsiasi tipo di incertezza, il che comporta l’assenza di chiarezza riguardo alla traiettoria del dollaro fino a quando non ci sarà un chiaro vincitore, indipendentemente da chi sarà il nuovo inquilino della Casa Bianca. In attesa dei risultati delle urne, siamo quasi certi di un incremento della volatilità del dollaro e rimaniamo cauti sul comportamento della valuta statunitense durante il mese di ottobre. Tuttavia, guardando più avanti, il cambiamento di approccio della Fed riguardo all’inflazione e l’esito di Jackson Hole dimostrano chiaramente come la banca centrale americana utilizzerà tutto ciò che è in suo potere per sostenere l’economia, minando anche la ragione, tra l’altro, che ha sostenuto la forza del dollaro nel corso degli ultimi 8 anni, ovvero la differenza in termini di tassi reali rispetto agli altri Paesi.
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