Investimenti: gli effetti della deglobalizzazione

La deglobalizzazione dei commerci mondiali e il conseguente nuovo ordine monetario internazionale in via di formazione sono ormai avviati. Il dollaro è destinato a perdere importanza a favore dello yuan, che oggi rappresenta solo l’8% circa degli scambi mondiali, in base al nuovo controvalore che sono destinate ad avere le materie prime sulle quali hanno puntato nell’ultima decade Cina e Russia. Due sono i blocchi che si vanno profilando: USA, Europa, Australia, Giappone, Israele e Paesi filo occidentali da una parte e Cina, Russia, India, Pakistan, Brasile, Iran, Cuba e gran parte dei Paesi africani dall’altra.

Le materie prime e le relative catene di approvvigionamento, che come abbiamo visto tanta importanza rivestono nella misura dell’inflazione, sono destinate ad incrementare la loro importanza mondiale, sostituendosi gradualmente alla finanza USA che ha tenuto banco negli ultimi 50 anni.

Abbiamo già cominciato a sperimentarlo con i prezzi del gas e del petrolio che non accennano a diminuire e tengono la crescita dei prezzi elevata. Ciò significa che i Paesi con poche o scarse risorse, vedranno il loro potere d’acquisto ridursi del 20-30% in pochi anni.

Facciamo l’esempio di casa nostra: l’Italia consuma ogni anno 75 miliardi di metri cubi di gas che nel 2020 ci sono costati 15 miliardi di euro, mentre oggi ne costano 80-90 miliardi (50 miliardi circa sono extra profitti). Ebbene, già nel 2020 a causa del Covid, la spesa media delle famiglie italiane ha subìto un calo del 9% rispetto al 2019 (il maggiore calo degli ultimi 30 anni). Tassi di interesse crescenti (e quindi costo del debito crescente), inflazione che non scende, perdita di potere d’acquisto (e quindi ulteriore riduzione dei consumi) e forte incertezza sulla politica economica del prossimo Governo. Non è un caso che negli ultimi giorni il debito italiano sia stato preso di mira dagli speculatori, che sembrano non essere spaventati dello scudo antispread (TPI).

Gli effetti della de-globalizzazione saranno mondiali, Russia compresa. Tuttavia, quello che preoccupa Putin non è certo l’uscita di scena di multinazionali come Mc Donalds, Starbucks, Ikea o Netflix, che possono essere facilmente sostituite da prodotti locali, né tantomeno le sanzioni e/o il blocco sull’export di petrolio dal febbraio 2023. Ma credo non gli faccia paura nemmeno l’inflazione, che dopo un iniziale aumento del 20% è tornata in luglio vicino allo zero. I fondamentali economici (cambio del rublo e riserve della banca centrale) sono infatti al riparo grazie all’enorme avanzo commerciale dovuto ai prezzi del gas e del petrolio. Quello che invece preoccupa Putin ritengo sia la rottura delle catene di approvvigionamento che presto porterà a finire le scorte di chip e semilavorati di beni strategici essenziali per la costruzione di aerei, nell’industria dell’auto, nelle telecomunicazioni, etc. Il cambio dei fornitori, che diventeranno presto cinesi, indiani e turchi, non sarà tuttavia né rapido né indolore per la Russia.

La de-globalizzazione non sarà comunque indolore nemmeno per le imprese dell’occidente, che sperimenteranno un’inflazione più lunga e resistente delle attese sia per il fatto che le sue cause sono destinate a perdurare a ancora a lungo (la de-globalizzazione non è un fenomeno di breve durata), sia perché oltre l’80% delle materie prime e semilavorati è in mano a Cina e Russia, che sicuramente non hanno interesse a far scendere i prezzi. Anche se scoppiasse la pace fra un minuto, è difficile pensare che il mondo dell’economia e della finanza tornerà ad essere quello ante guerra. Ovviamente questo non significa che non occorra cercate in tutti i modi la pace. Ricordiamo che la Cina nel 2009 ha deciso di diventare il protagonista produttivo e monetario del XXI secolo.

A cura di Antonio Tognoli, Responsabile Macro Analisi e Comunicazione di Cfo Sim