A cura di Carlo Benetti, Market Specialist di GAM (Italia) SGR
La settimana delle banche centrali ha coinciso con il maggior progresso settimanale dell’indice americano, corroborato dalle parole di Powell sui possibili tagli di tre quarti di punto da qui a fine anno. Anche il Nasdaq ha messo a segno un progresso di quasi il tre per cento nella stessa settimana, per l’indice tecnologico è stata la migliore performance dallo scorso dicembre.
La decisione della Fed di prolungare la pausa era ampiamente attesa ma è stata l’esplicita franchezza delle parole di Powell ad accelerare il movimento dei listini in un contesto generale improntato all’ottimismo. Alle parole di Powell hanno fatto eco quelle di Andrew Bailey che, in una intervista al Financial Times, ha confermato la ragionevolezza delle attese di una significativa riduzione del costo del denaro.
Nei banchieri centrali cresce la fiducia nel successo nella lotta all’inflazione senza dover pagare un conto troppo salato in termini di disoccupazione e rallentamento economico. Qualcuno comincia a parlare di “disinflazione immacolata”, la condizione per cui l’inflazione torna verso il 2% senza dolorosi aumenti nella disoccupazione, come invece accadde nei primi anni Ottanta. Nella settimana delle banche centrali le sorprese sono venute dalla Bank of Japan e dalla Banca Nazionale Svizzera.
A Tokyo, il Board della banca centrale ha espresso un voto storico, l’ultima banca centrale al mondo con i tassi negativi ha deliberato la fine della politica monetaria ultra-espansiva, per la prima volta dal 2007 è aumentato il costo del denaro, il tasso di riferimento è stato portato a un intervallo compreso tra lo zero e lo 0,1% dal precedente meno 0,1%.
La decisione dovrebbe segnare la fine del lungo periodo di deflazione, le aziende aumentano gli stipendi e trasferiscono i costi ai consumatori. L’indice Nikkei 225 ha reagito favorevolmente, gli operatori scommettono sul fatto che i tassi ufficiali non aumenteranno bruscamente.
Anche la Banca Nazionale Svizzera ha sorpreso i mercati ma con una mossa di segno opposto. Giovedì scorso, il consiglio della banca ha tagliato il tasso di riferimento di un quarto di punto ritenendo che l’inflazione al 1,2%, il livello più basso degli ultimi due anni e mezzo, non costituisca più motivo di allarme.
Confidando che nei prossimi mesi il solco tracciato dalla Banca Nazionale Svizzera venga seguito dalla Banca Centrale Europea e dalla Federal Reserve, lo S&P 500, il FTSE 100, il Dax e gli altri indici europei gareggiano nei record.
La corsa dei mercati azionari è ininterrotta da ottobre ma crescono i dubbi e le ansie, ci si interroga sulla sostenibilità del momentum e se negli Stati Uniti l’economia continua a sorprendere, in Europa le condizioni sono molto diverse; i problemi che compromettono il modello di crescita della Germania pongono i record del Dax in una luce diversa da quelli dello S&P 500.
I listini sembrano catturati dalla narrazione prevalente che prevede il rientro lineare dell’inflazione, il rallentamento indolore dell’attività economica, il progressivo taglio del costo del denaro e, soprattutto, favorevoli prospettive degli utili aziendali. È necessario un forte atto di fede nell’economia americana e, significativamente, nelle capacità taumaturgiche dell’innovazione tecnologica applicata alla produttività.
La liquidità è ancora abbondante, le prospettive dei tassi favorevoli, c’è chi si sbilancia sull’ipotesi del “no landing” dell’economia americana. Mohamed El-Erian fa un parallelo con la metà degli anni 2000, le banche centrali “potrebbero accettare tacitamente un’inflazione più elevata, compresa tra il 2% e il 3%”, una condizione che dovrebbe sostenere le azioni e la crescita.
Dopo l’implosione della ex Unione Sovietica, il rischio politico era sostanzialmente scomparso dai mercati finanziari, veniva valutato solo in riferimento agli investimenti nei paesi emergenti. Il rischio politico si è ripresentato negli ultimi anni, in un primo momento nella competizione tra Stati Uniti e Cina, poi drammaticamente evidente con la guerra in Ucraina.
In questi due anni abbiamo anche visto come il rischio politico ricada sui prezzi solo quando i suoi effetti incidono direttamente sulle grandezze economiche.
Non è quindi prevedibile se e come l’assalto all’auditorium di Mosca potrà cambiare l’equazione dei mercati che, al momento, sono guidati soprattutto dalla prossimità dei tagli dei tassi di interesse.
La difesa contro l’imprevisto consiste nella ampia diversificazione allocativa. Il mercato azionario americano è sostenuto dalle prospettive degli utili ed è caro, gli investitori sanno che siamo in un anno elettorale ma ne conoscono anche le vulnerabilità, il rallentamento della crescita degli utili ne è un indizio. I vantaggi dell’economia negli Stati Uniti rimangono elevati, il favore al momentum del listino americano giustificato.
Il ruolo della difesa del portafoglio può essere affidato alle azioni europee e svizzere in particolare. Le valutazioni delle “large cap” europee sono competitive e la prospettiva dei tagli offre una adeguata alternativa.
Nella componente obbligazionaria la diversificazione dovrebbe estendersi a fonti di rischio diverse da quella dei tassi. Restano interessanti le obbligazioni governative e quelle societarie di alta qualità, bilanci e flussi di cassa costanti ne fanno affidabili pagatori.
I mercati emergenti potranno beneficiare della perdita di interesse che potrebbe riguardare il dollaro una volta che la Federal Reserve avrà cominciato a tagliare i tassi.
Le maggiori fonti di incertezza restano l’inflazione e il rischio politico. Le decisioni dei comitati che governano i tassi e l’evoluzione dello scenario geopolitico globale determineranno l’orientamento dei mercati nel prossimo futuro.