A cura di Alessandro Fugnoli, strategist di Kairos
Quando Franklin Delano Roosevelt divenne presidente degli Stati Uniti, la prima iniziativa che prese in politica internazionale fu il riconoscimento dell’Unione Sovietica. Correva l’anno 1933, le ferite della Grande Depressione erano ancora fresche e l’industria e la finanza speravano che il disgelo diplomatico avrebbe aperto loro le porte del mercato russo, che in quel momento appariva in grande espansione grazie alla politica di industrializzazione forzata impostata dai piani quinquennali.
Roosevelt aveva una buona opinione dell’Unione Sovietica, in particolare del concetto di economia pianificata, e con il New Deal cercò di creare un capitalismo con qualche tratto di socialismo (big government, tassazione fortemente progressiva, regolamentazione capillare dell’economia con priorità all’occupazione, sostegno ai sindacati). In cambio di queste attenzioni, l’Unione Sovietica prese impegni non certo gravosi, come la garanzia della libertà religiosa per gli americani in Russia e la limitazione del sostegno alle organizzazioni rivoluzionarie americane.
Il rapporto tra Roosevelt e Stalin fu molto buono durante la seconda guerra mondiale e c’è chi sostiene che, se Roosevelt non fosse mancato prematuramente nel 1945, sarebbe rimasto buono anche dopo. In realtà, come ha documentato Mary Glantz in un suo libro (FDR and the Soviet Union, 2005), proprio mentre Roosevelt e Stalin iniziavano a dialogare nella prima metà degli anni Trenta, il deep state americano remava contro e preparava il terreno per la futura guerra fredda. Quando Truman divenne presidente, le posizioni antisovietiche prevalsero nettamente e divennero dottrina ufficiale nei decenni successivi.
Detto questo, né Truman, democratico, né Eisenhower, repubblicano, pensarono mai di accompagnare l’avvio della guerra fredda con lo smantellamento del New Deal. Eisenhower non toccò una virgola dello stato sociale e criticò il big government a parole, ma fu di fatto anch’egli dirigista quando lanciò il grande programma pubblico di costruzione accelerata della rete autostradale americana. Insomma, la guerra fredda contro l’Unione Sovietica coincise senza troppi problemi con l’adozione strutturale da parte dell’America di elementi politici e ideologici dell’avversario.
Viene in mente qualcosa di simile quando si sente Russell Napier parodiare la dottrina della Cina postmaoista (il socialismo con caratteristiche cinesi) e parlare di capitalismo con caratteristiche cinesi per descrivere l’Occidente del prossimo decennio.
Detto con altre parole, la guerra fredda con la Cina nella quale l’amministrazione Biden, volente o nolente, si troverà immersa coinciderà con un’autoriforma del capitalismo che mutuerà dalla Cina molti dei suoi elementi. Si pensi al big government, alla politica ultradirigista sul clima e sulla tecnologia, alla reregulation, alla fusione tra banche centrali e governi, alla difesa dei campioni nazionali e all’abbandono della concorrenza, alla repressione finanziaria, al controllo della curva dei rendimenti, alle banche come filiali della banca centrale incaricate di distribuire prestiti con garanzia pubblica, all’uso delle borse come strumenti di politica monetaria e all’uso della finanza e del risparmio per obiettivi di politica industriale.
Il New Deal degli anni Trenta e il Green New Deal di domani hanno del resto in comune il fatto di essere misure energicamente reflazioniste che seguono fasi di deflazione in cui il capitalismo è dapprima fiorito in modo lussureggiante, ma è poi appassito. In questo senso i Biden e le Yellen di domani possono sembrare a occhi contemporanei molto diversi dai Trump e dai Mnuchin di ieri, ma sono in realtà ancora più lontani dai Clinton e dai Rubin degli anni Novanta, quelli che deregolavano la finanza, portavano il bilancio pubblico in surplus e professavano il dollaro forte. Visto da vicino Biden è un riglobalizzatore, visto da lontano è un reflazionatore come e più di Trump.
Come deve comportarsi chi investe in questo nuovo mondo?
Non ci sono molte alternative, bisogna seguire la corrente. Investite come vi viene detto, ammonisce Chris Potts, o verrete espropriati (dall’inflazione, dai rendimenti reali negativi, dalle regole e dalle tasse, ndr). Borsa quindi (e crediti), con uno spiccato colore verde.
Come in Cina, resteranno aperti due spazi alternativi. Il primo è quello delle bolle circoscritte di Borsa, col regolatore che dirige l’indice generale e lo spinge verso gli obiettivi desiderati (si veda il Powell di ieri che benedice il livello raggiunto dagli asset finanziari) e qualche area giochi nella piccola e media tecnologia di Shenzhen o di Silicon Valley dove si può speculare senza limiti. Il secondo spazio è l’opposizione di sua maestà costituita in Cina da chi compra case come bene rifugio e nel resto del mondo da chi compra oro e bitcoin. Opposizione perché chi la esercita proclama diffidenza verso l’inflazione e la Borsa. Di sua maestà, questa opposizione, perché chi compra case cinesi, oro e bitcoin partecipa in realtà alla grande festa della reflazione, la stessa cui partecipano le Borse.
Venendo al breve termine, il gran finale del 2020 e l’inizio del 2021 si profilano come lo scontro tra vaccini e reflazione da una parte e, dall’altra, la triste realtà della pandemia e della sua coda che si profila ancora più velenosa per gennaio e febbraio. Non dimentichiamo che fine anno e gennaio, per i mercati, sono il tempo della speranza che, come la neve, copre ogni dubbio e ogni bruttura.
Chi ha dollari per ragioni di diversificazione strutturale li dedichi alla parte più aggressiva del portafoglio, azioni americane ad alto beta, bond emergenti, crediti ad alto rendimento. Da considerare anche le valute locali di quei paesi emergenti (tra cui la Cina) che tradizionalmente ruotano intorno al dollaro e che in questa fase stanno apprezzandosi sulla moneta americana.
L’articolo Verso un capitalismo con caratteristiche cinesi proviene da Finanza Operativa.