Veicoli elettrici, le mani della Cina (e del mondo intero) su un settore a prova di crisi

Byd, MG Motor, Nio… tutti nomi di cui forse non avete ancora sentito parlare. Ma uno di loro potrebbe essere il costruttore della vostra prossima auto. Si tratta di tre gruppi cinesi che sono i primi ad esportare veicoli elettrici dal ‘Regno di Mezzo’ al Vecchio Continente. Ed è improbabile che siano gli ultimi a farlo…”. E’ quanto sottolinea Marouane Bouchriha, Fund Manager, International Equities di Edmond de Rothschild Asset Management. Che di seguito analizza le opportunità d’investimento relative al mercato dei veicoli elettrici.

La Cina, ad oggi, è di gran lunga, il più vasto mercato automobilistico, un mercato che nel corso degli ultimi 20 anni ha rappresentato una manna per i produttori tedeschi. Con 27 milioni di veicoli venduti all’anno (quasi il doppio rispetto all’Europa), il mercato interno cinese è stato a lungo sufficiente ad accontentare gli operatori locali, che hanno beneficiato – come sempre nel caso di Pechino – delle severe normative che disciplinano l’insediamento di produttori stranieri e dei trasferimenti di tecnologia volti a sviluppare localmente la catena di valore del settore su base locale. A lungo ostacolata dalla posizione predominante dei player occidentali all’interno del segmento dei motori termici, la Cina ha scelto di sostenere con decisione la transizione verso l’elettrico. Al di là delle considerazioni di natura ambientale, tale cambiamento consente anche un rimescolamento delle carte per quanto riguarda le logiche di concorrenza globale nel settore automobilistico. E di conseguenza è dal 2009 che la Cina sta sviluppando un ecosistema fatto di veicoli elettrici attraverso meccanismi di sovvenzioni e di sostegno, attraverso per esempio gli acquisti destinati alle flotte pubbliche.

Lo sviluppo della catena di valore per quanto riguarda il segmento delle batterie – la produzione di batterie, componente essenziale, era in precedenza un’area in cui Corea e Giappone dettavano legge – dimostra anche il pragmatismo di Pechino quando si tratta di proteggere i propri interessi e di sviluppare la propria industria. Le autorità cinesi hanno semplicemente istituito una “lista bianca” di produttori di batterie che potevano accedere ai sussidi, con il pretesto del controllo di qualità e della sicurezza delle batterie vendute. Naturalmente di produttori stranieri inseriti in questa lista non ce n’era nessuno. Tali misure hanno portato allo sviluppo in soli pochi anni di Catl, un gigante che ora pesa 90 miliardi di dollari sul mercato azionario e che controlla quasi un quarto della domanda mondiale di batterie per auto elettriche (dati Bloomberg al 23 novembre). Ironia della sorte, questa società fornisce le batterie della Peugeot e-208, uno dei veicoli elettrici più venduti in Francia quest’anno. Poiché la batteria rappresenta circa il 25-30% del costo di un veicolo elettrico, si stima che parte del bonus verde di 7.000 euro pagato dal governo per questa tipologia di acquisti finisca proprio nelle casse di Catl.

Solare vs eolico: traiettorie opposte

Le energie rinnovabili offrono la possibilità di realizzare un interessante parallelo storico per quanto riguarda l’analisi della politica industriale europea. L’Europa è stata pioniera nello sviluppo sia dell’eolico che del solare sostenendo la domanda locale. Tuttavia, i due settori hanno seguito traiettorie opposte. Alcuni campioni europei dell’energia eolica (Vestas, Siemens-Gamesa) si sono affermati a livello globale, nonostante il trasferimento di molti componenti in Cina, con i siti di assemblaggio e di ricerca e sviluppo e gran parte del valore aggiunto che sono rimasti nel Vecchio Continente. Nel settore dell’energia solare, aziende come SolarWorld o Q-Cells sono ormai un lontano ricordo, passati da giganti globali al fallimento in pochi anni dopo il dumping cinese. Il resto della catena di valore ha finito per seguire la stessa strada, e oggi più dell’80% dei pannelli solari in tutto il mondo sono prodotti da operatori cinesi (dati Bloomeberg al 23 novembre). Anche altri parametri spiegano tali percorsi opposti, in particolare le dimensioni delle pale delle turbine eoliche, che limitano il rischio di delocalizzazione, e la necessità di elettricità a basso costo per produrre il polisilicio alla base dell’energia solare fotovoltaica. Ma attenzione: la Cina, grazie alle dimensioni del suo mercato interno e alla propria elettricità a basso costo alimentata a carbone, potrebbe replicare lo scenario che abbiamo descritto sul fronte dell’energia solare anche per quanto riguarda la catena di valore dei veicoli elettrici.

Il rischio è concreto perché il settore occupa il 5,8% della forza lavoro dell’Unione Europea, inclusi 210mila posti di lavoro diretti in Francia. Quest’ultimo numero è già fortemente calato, poiché la Francia ha perso quasi un terzo dei posti di lavoro legati alla progettazione e alla produzione di veicoli elettrici dal 2004 ad oggi. Oltre a questo dato, sono coinvolti anche tutti i posti di lavoro indiretti, mentre l’impatto sociale della deindustrializzazione, già di per sé consistente, sarebbe ulteriormente aggravato.

Imparare dagli errori del passato

Negli Stati Uniti e in Cina è stata lanciata una miriade di nuove startup dedicate ai veicoli elettrici. Si tratta di aziende che sono state in grado di sfruttare la moda che circonda il mercato per finanziare i siti di produzione, e sono ora emersi nomi promettenti e consolidati, come Li Auto e Xpeng in Cina, o Rivian, Fisker e Lucid negli Stati Uniti. Nulla di tutto ciò accade in Europa, nonostante la regione sia sede della gran parte dell’ecosistema automobilistico e dei propri ingegneri. Questa triste constatazione dovrebbe indurre ad interrogarsi sulla mancanza di dinamismo imprenditoriale nel Vecchio Continente e sulla debolezza delle strutture di finanziamento, ma questo purtroppo rappresenta una dinamica che va ben oltre il settore automobilistico.

La Commissione Europea sembra si stia rendendo conto di questo rischio passando all’offensiva, con il cosiddetto piano “Airbus delle batterie”. Saft, lo specialista francese delle batterie, di cui Total ha preso il controllo nel 2016, ha collaborato con Psa per creare un primo sito produttivo in Francia, a Nersac, nella regione della Charente. Si prevede che il sito inizierà la produzione nel 2023 con una capacità iniziale di 8 GWh all’anno. Ancora più incoraggiante, Verkor, una start-up con sede a Grenoble sostenuta da Schneider Electric, non ha esitato a pensare in grande lanciando un progetto per una gigafactory con una capacità produttiva annuale di oltre 16 GWh. Non si devono però ripetere gli stessi errori commessi nell’ambito del solare, e l’Europa dovrà dimostrare lo stesso pragmatismo che all’epoca ha messo in campo Pechino per permettere la crescita di queste giovani aziende.

Un argomento logico in linea con l’obiettivo climatico di una transizione in direzione della mobilità elettrica sarebbe quello di tenere conto delle emissioni di gas serra, non solo a livello di utilizzo del veicolo (come avviene oggi), ma anche per quanto riguarda tutto il suo ciclo di vita, perché la produzione di batterie è una voce importante in queste emissioni. Le emissioni del mix elettrico sono di 555g Co2/kwH in Cina contro i 387g della Germania e i 48g della Francia. La Francia, con il suo mix di elettricità decarbonizzata, deve quindi continuare a diventare un perno industriale della strategia europea per i veicoli puliti.

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