La prima società che superò il miliardo di dollari di capitalizzazione fu, nel 1901, US Steel, che John Pierpont Morgan formò fondendo tre gruppi siderurgici. Il più importante di questi era stato fondato da Andrew Carnegie, uno scozzese nato in una famiglia povera che aveva fatto mille mestieri (tra cui il venditore di bond) prima di diventare magnate dell’acciaio, uomo più ricco d’America e grande filantropo (donò in vita quasi tutto quello che aveva, denunciando la ricchezza come una grave disgrazia per chi se la ritrova).
L’acciaio allora era tutto. Significava progresso e industria di pace, ma soprattutto cannoni e corazzate, ovvero il dominio militare sul mondo, che infatti era già passato agli Stati Uniti quando Carnegie, nel 1919, morì. Nel 1901 il valore di Borsa di US Steel raggiunse così una cifra equivalente a 50 miliardi di oggi. Lentamente, però, il miracolo appassì, indebolito dall’alto costo del lavoro prima e dalla concorrenza asiatica poi. Nel 2014 US Steel subì addirittura l’onta della cancellazione dall’indice S&P 500. Una lunga ristrutturazione e i dazi di Trump le hanno ridato vita, ma la sua capitalizzazione attuale, pari a 10 miliardi di dollari, è comunque un quinto, a dollari costanti, di quella di 123 anni fa.
La prima società al mondo che superò i 10 miliardi di capitalizzazione fu General Motors. Correva l’anno 1955 e l’auto, simbolo del benessere dell’Occidente, rappresentava la libertà e il futuro. Detroit era una città opulenta ed elegante, popolata da magnati, ingegneri e da un’aristocrazia operaia con redditi invidiabili. L’auto era oggetto di culto, ogni famiglia ne aveva almeno una e c’era chi la teneva addirittura in salotto.
Poi però arrivarono la crisi petrolifera, la sindacalizzazione esasperata, la concorrenza tedesca e giapponese e l’ecologia. GM attraversò un’esperienza di quasi morte nel 2009. Da allora si è rimessa insieme, ma i 46 miliardi di capitalizzazione odierna sono meno della metà dei 115 (l’equivalente in dollari attuali dei 10 del 1955) che aveva raggiunto 69 anni fa.
A superare i 100 miliardi di capitalizzazione ci pensò per prima General Electric nel 1995. A fare sognare i mercati, in questo caso, non era un prodotto (GE era una conglomerata industriale e faceva di tutto) ma uno stile di management, il Six Sigma, che era la rivincita americana sulla supposta superiorità dei modelli di gestione giapponesi che avevano dominato il decennio precedente.
In realtà, dietro al Six Sigma, c’era il pugno di ferro di Jack Welch, che chiudeva brutalmente e a rotazione i settori che producevano meno ritorni e ne apriva continuamente altri. Welch trovò poi un terreno fertilissimo nel vendor financing. Finanziava i compratori dei suoi prodotti, aumentando il fatturato e guadagnando sul finanziamento. Ci prese talmente gusto che GE si trasformò in una shadow bank con un allegato industriale, portando il valore di Borsa a 600 miliardi nel 2001. Il 2008 fece crollare il castello di carte. Da allora GE è ritornata faticosamente a fare umilmente industria e si è rimessa in piedi, ma in Borsa vale oggi solo 162 miliardi, contro i 202 (a dollari costanti) del 1995.
Il trilione fu raggiunto da PetroChina nel 2007, al momento della quotazione iniziale. Il petrolio era in una fase di forza, la Cina ne accumulava più che poteva e tutto il mondo voleva investire nel paese che ogni anno cresceva del 10 per cento. Da allora la Cina ha continuato a crescere, ma il petrolio è sceso e gran parte del mondo finanziario preferisce evitare di stare su un mercato che gli Stati Uniti amano ogni giorno di meno. PetroChina capitalizza oggi 212 miliardi, un quinto rispetto a 17 anni fa.
Apple, nel 2020, è stata la prima società a vedere crescere di un trilione la sua capitalizzazione in 8 mesi. La crescita, meno travolgente, è proseguita nel 2021. Da allora il titolo si è stabilizzato e vale oggi come alla fine del 2021.
Nvidia è oggi la seconda società a vedere crescere di un trilione in otto mesi in suo valore di mercato. Uno strategist non può, non deve e non vuole dare suggerimenti di acquisto o di vendita su singoli titoli e questa non è la sede per stabilire quanto potrà valere Nvidia fra 10, 50 o 100 anni. Ogni società fa storia a sé e analisi di questo tipo sono un compito che lasciamo volentieri agli analisti azionari.
Uno strategist, che si muove a livello di asset class, non può però fare a meno di constatare che, in questa fase, se Nvidia si muove come una asset class e influenza le altri asset come e di più di altre asset class allora, Nvidia va probabilmente considerata un’asset class a sé stante. Un insieme con un unico elemento, come l’oro.
In pratica Nvidia, in certi momenti, guida i Magnifici Sette, che guidano la Borsa americana, la quale guida le Borse mondiali, le quali influenzano al margine anche i bond e le politiche monetarie del mondo. È una situazione nuova, che ci limitiamo a registrare con meraviglia e curiosità.
Nvidia non produce direttamente intelligenza artificiale, ma è come i produttori di badili e setacci che vendevano i loro prodotti ai cercatori d’oro, i quali l’oro a volte lo trovavano e a volte no. E poiché i grandi gruppi che lavorano sull’intelligenza artificiale fanno anche molte altre cose, Nvidia è, al momento, il proxy più puro, tra i grandi gruppi, dell’intelligenza artificiale.
L’interesse per la comunicazione trimestrale di Nvidia l’altra sera è stato tale da oscurare quello, solitamente elevato, per la pubblicazione dei verbali dell’ultimo Fomc. Non vogliamo arrivare a dire che la distanza tra i verbali (più hawkish) e quello che era apparso dopo il Fomc sia dovuta al grande fermento delle borse sul tema dell’intelligenza artificiale. Le ragioni vanno piuttosto ricercate nel modesto aumento dell’inflazione registrato in gennaio, che rende più prudenti le banche centrali. Al margine, tuttavia, anche la questione dell’AI conta.
Con una crescita forte e un’inflazione non del tutto domata, è ragionevole pensare che la Borsa si consideri, in questa fase, più forte dei bond lunghi e da questi, parzialmente indipendente. Suggeriamo pertanto di concentrarsi su Borsa e bond brevi-intermedi, almeno per le prossime settimane.
A cura di Alessandro Fugnoli, strategist di Kairos (rubrica Il Rosso e Il Nero)