Mercati, tre temi per una svolta epocale dell’economia

Q&A con Justin Thomson, CIO, Head of International Equity, T. Rowe Price

Quando è iniziato il 2022, molti di noi si aspettavano che sarebbe stato un anno di “normalizzazione” e che le disruption delle supply chain, in particolare per i componenti di produzione critici come i semiconduttori, si sarebbero attenuate gradualmente. Dopo un forte e coordinato stimolo economico da parte dei governi e delle Banche Centrali di tutto il mondo, ci aspettavamo un 2022 caratterizzato dalla normalizzazione della politica monetaria.

Questo avrebbe avuto un impatto sui mercati finanziari attraverso l’aumento dei tassi d’interesse, con una conseguente normalizzazione delle valutazioni e un rientro di alcune “sacche di eccesso” osservate nel 2021. Quando è iniziato il 2022, gli investitori avevano capito che l’inflazione sarebbe stata un problema più duraturo di quanto fosse stato valutato in precedenza. Il risultato era che sia il viaggio sia la destinazione finale sui policy rate a breve termine sarebbero stati più lunghi e più difficili di quanto previsto, nonché una sfida potenzialmente maggiore per le valutazioni già sotto pressione. Ci si aspettava che la normalizzazione avrebbe riguardato anche la crescita degli utili. Gli altissimi tassi di recupero pandemico della crescita degli utili erano destinati a rallentare, anche se il contesto sottostante rimaneva solido.

Se inizialmente il 2022 sembrava essere l’anno della normalizzazione, il conflitto tra Russia e Ucraina ha drammaticamente interrotto questo processo. In che modo ritiene che questi tragici eventi abbiano un impatto sui mercati globali?

Credo che nessuno fosse posizionato per un’incursione su larga scala da parte della Russia in Ucraina. Le sanzioni economiche contro la Russia sono state tanto sorprendenti quanto rigorose. Se si era parlato di escludere le banche russe dal sistema di pagamento SWIFT, sanzionare la Banca Centrale Russa negandole l’accesso alle proprie riserve è stato l’elemento più sorprendente. Come tale, rappresenta una nuova forma di guerra economica mai considerata in precedenza.

Ritengo che non saremo in grado di capire l’impatto a lungo termine della crisi tra Russia-Ucraina per un bel po’ di tempo. I tedeschi hanno un’ottima espressione per raccontare questo scenario: Zeitenwende. Significa che abbiamo raggiunto un “punto di flesso” nella storia che è destinato a cambiare le carte in tavola. E il mondo come noi lo pensiamo sta certamente per cambiare in modi difficili da prevedere. Una delle prime cose che probabilmente vedremo è un riorientamento delle strategie energetiche, mentre l’Europa riduce la propria dipendenza dal petrolio e dal gas russo. Ci sarà probabilmente un’accelerazione degli investimenti nelle energie rinnovabili, soprattutto perché i costi di switching sono ridotti, se i prezzi dell’energia rimangono elevati. Un’altra ovvia implicazione dell’invasione russa dell’Ucraina è che possiamo aspettarci una maggiore spesa per la difesa.

L’impatto immediato delle sanzioni è stato un forte aumento dei prezzi dell’energia, in particolare del petrolio e del gas, come successo durante la guerra del Golfo nel 1991. Ci sono somiglianze con quella fase storica?

Stiamo assistendo a un aumento dell’inflazione dei prezzi delle materie prime in una vasta gamma di settori – energia, cibo e metalli – il che lo rende uno scenario molto diverso da quello visto nel 1991. L’evoluzione dell’andamento dell’inflazione è assolutamente cruciale per i mercati. Più a lungo si protrarrà nei mercati energetici, più grave diventerà in termini di impulso inflazionistico diretto, e ovviamente, anche in termini di effetti secondari sull’industria e i servizi. Questi effetti secondari daranno un impulso deflazionistico o, potenzialmente, recessivo. Nonostante tutti i discorsi odierni degli asset manager sulla stagflazione, i prezzi forward del petrolio rimangono al di sotto dei prezzi spot. Ritengo che questo offra un barlume di conforto, poiché implica che il mercato si aspetta che i prezzi del greggio scendano nel tempo.

Pensiamo che l’inflazione sarà diffusa in modo disomogeneo. L’impulso inflazionistico nei prezzi degli alimenti incide, in particolare, sul grano, per il quale l’Ucraina e la Russia rappresentano circa il 25% dell’offerta globale e sono una fonte alimentare molto importante per i paesi del Medio Oriente e dell’Africa. Quindi si registrerà un effetto diretto attraverso l’inflazione alimentare, con una ricaduta negativa a catena sulla spesa generale dei consumatori. Le economie asiatiche, essendo in gran parte basate sul riso, dovrebbero essere meno interessate da queste pressioni.

C’è stato un dibattito acceso sul fatto che le pressioni inflazionistiche nella ripresa post-pandemica siano transitorie o permanenti. Qual è la sua opinione?

É essenziale capire quali problemi sono temporanei e quali sono più strutturali o a lungo termine. Quando si tratta di problemi legati alle supply chain, per esempio, c’è una famosa frase che dice che “la cura per i prezzi alti sono i prezzi ancora più alti”, perché creano un’offerta aggiuntiva e abbassano la domanda, facendo scendere a loro volta i prezzi. Questo vale, per esempio, per i semiconduttori e altri input elettronici, auto di seconda mano, e altri articoli che abbiamo comprato in grandi quantità durante il lockdown, come PC, biciclette e camper. Gli aumenti eccezionali che hanno interessato questi articoli sono in gran parte legati alla pandemia e dovrebbero probabilmente normalizzarsi.

Per quanto riguarda gli effetti più permanenti o strutturali, basti pensare alla cosiddetta “Great Resignation”, che ha creato una forte offerta nel mercato del lavoro, in particolare per figure con competenze tecnologiche. Questa situazione ha portato a salari e stipendi più alti che stanno diventando un fattore di preoccupazione crescente per i policymaker. Potrebbe portare a effetti di secondo livello sulle aspettative di inflazione e anche a una forte domanda di capitale per sostituire il lavoro più costoso. Se si aggiunge una tendenza alla deglobalizzazione con le supply chain che diventano più localizzate, è plausibile che anche questo possa avere un certo impatto sull’inflazione.

Potremmo vedere inoltre più generosità nella spesa fiscale e una maggiore propensione al deficit fiscale. Dal mio punto di vista si tratta di importanti cambiamenti strutturali che segnalano la fine dell’austerity che stiamo vivendo dalla Crisi Finanziaria Globale di 13 anni fa. In sintesi, ritengo che stiamo vivendo un cambiamento di paradigma in base al quale l’inflazione, nei prossimi anni, sarà più elevata di quanto non fossimo abituati.

Un altro tema caldo è il dibattito sui tassi d’interesse, cosa pensa dell’evoluzione delle politiche delle banche centrali in risposta a tutto ciò che sta accadendo?

I mercati si aspettano una serie di rialzi dei tassi quest’anno, e altri nel 2023, ed è un fenomeno che riguarda le banche centrali di tutto il mondo.

Ciò che risulta insolito è il livello dei rendimenti obbligazionari reali, che a inizio anno era ai minimi degli ultimi 50 anni. Qualcosa deve cambiare. Se i tassi d’interesse reali sono troppo bassi, allora o i tassi nominali e i rendimenti obbligazionari devono salire o l’inflazione si placa. Mi aspetto che i rendimenti obbligazionari a livello globale – con poche eccezioni, come il Giappone – si muoveranno costantemente verso l’alto dai livelli attuali. Vale la pena precisare che, dato l’impulso recessivo, si potrebbe registrare un’inversione della curva dei rendimenti negli Stati Uniti.

Per quanto riguarda i mercati azionari, la storia mostra che le azioni possono performare bene in un contesto inflazionistico fino a un certo punto o soglia, tipicamente un tasso di inflazione di circa il 3%-4%. È stato solo con l’inflazione sopra il 4% che i mercati azionari hanno sofferto.

Molto dipenderà dal ritmo dei rialzi dei tassi d’interesse e dal punto di partenza delle economie.