Mercati ancora sotto tensione

Gli sviluppi del week-end ci mostrano ancora una volta elevata tensione sul comparto energetico europeo, dopo i tagli imposti dalla Russia alle froniture di Gazprom (elemento che ha generato un rialzo nei prezzi del gas nell’ordine del 50% solo nella settimana passata), così come nel sempre più volatile comparto delle criptovalute che ha regsitrato violentissime oscillazioni del Bitcoin, attualmente sul limitare della soglia dei 20.000 dollari, tra sabato e domenica.

Non mancano anche importanti sviluppi sul fronte politico, dalla epocale sconfitta di Macron nelle legislative francesi, che di fatto mette in minoranza l’esecutivo, agli ennesimi tremori che condizionano il Governo italiano fino alle perenni diatribe tra USA e Cina in merito all’indipendenza di Taiwan (con nuovi scambi di vedute questa volta sull’internazionalità delle acque che dividono l’isola dal continente cinese).

Nella giornata di venerdì ancora delusioni da parte delle statistiche americane (non per nulla la parola recessione inizia a farsi sempre più frequente anche nel lessico dei rappresentanti istituzionali americani, a partire dalla Yellen nel week-end), con una inattesa flessione nella produzione industriale di maggio che rapresenta la prima contrazione da quattro mesi a questa parte; si guarda anche con attenzione al ciclo delle scorte in USA con il rapporto inventari/vendite che continua a carambolare verso l’alto dopo il nadir legato alle problematiche di approvigionamento, segno che se i consumatori stanno rapidamente battendo in ritrata, i players della grande distribuzione potrebbero presto invece ricorrere a saldi anticipati per alleggerire la pressione sui magazzini.

Il graduale spostamento dell’attenzione dalle problematiche legate all’offerta a quelle potenziali legate alle prospettive di una domanda in rapido dissolvimento condizionano anche il settore delle materie prime, primo tra tutti quello del petrolio che dopo la debacle di venerdì, che ha vsito il contratto cedere oltre il 7%, si attesta questa mattina con il Wti sotto quota 110 dollari per barile.

Tuttavia la problematica più impellente come sappiamo non è legata al prezzo in se del greggio, quanto all’elevato prezzo dei suoi derivati, ed invero poco incoraggiamento sembra arrivare in questi giorni dalla capacità di raffinazione cinese, probabilmente la più elevata al mondo (17,5 milioni di barili alla fine del 2020 e 20 milioni previsti entro il 2025 contro gli attuali 18,14 milioni statunitensi) che viaggia ancora ad un rateo prossimo al 70% della capacità (contro l’oltre 94% di quella americana).

Segnali di stress in Cina sono altresì visibili nel mondo dei metalli, con il minerale di ferro che prosegue la sua contrazione portandosi ai minimi d’anno questa mattina e le esportazioni di una componente imortante come quella dell’allumina da parte della Cina che con le 190.000 tonnellate di maggio fanno salire il totale delle esportazioni di questo materiale a 380.000 tonnellate da inizio anno, un rialzo superiore al 1.000%.

Non proprio una indicazione incoraggiante di ripresa di attività se teniamo conto che proprio la Cina è, tra le altre cose, il più grande produttore di alluminio e acciaio al mondo.

Compresibile quindi il tono dimesso espresso dai metalli non ferrosi in chisura di settimana ed alle prime battute questa mattina, con le quotazioni del rame che continuano a perdere terreno, dopo aver bucato il supporto psicologico dei 9.000 dollari (siamo ora in area 8.800) e L’alluminio che continua a gravitare sotto il supporto dei 2.500 dollari marcando al contempo i minimi da inizio 2021.

A cura di Michael Palatiello, ad e strategist di Wings Partners Sim