“A costo di essere accusati di benaltrismo, vorremmo divincolarci dalla domanda tormentone di questi giorni sull’inflazione temporanea o meno. Si sono formate due fazioni molto accese e, come accade sempre in questi casi, viene chiesto di schierarsi in modo perentorio, o di qua o di là”. Ecco di seguito la view di Alessandro Fugnoli, strategist di Kairos.
La prima fazione, quella della fiammata temporanea, ha dalla sua le banche centrali e ha buon gioco a invocare con sarcasmo l’esperienza del decennio scorso, quando ai primi cenni di Quantitative easing si levò una schiera di bond vigilantes a paventare il ritorno dell’inflazione e il suo corollario, il crollo del dollaro. Come è noto l’inflazione non è mai arrivata e il dollaro si è rafforzato per anni contro tutte le valute.
I teorici della fiammata fanno anche notare che sono ancora al lavoro fattori strutturali, in primo luogo la demografia e la disruption prodotta dall’innovazione tecnologica, che farebbero da ostacolo praticamente insuperabile a un ritorno stabile dell’inflazione. Fanno infine notare che i dati sui prezzi da marzo in avanti devono essere depurati dall’effetto base, dal fatto cioè che, l’anno scorso a quest’epoca, i prezzi stavano scendendo. Nei prossimi mesi questo effetto ottico di amplificazione dell’inflazione anno su anno si smorzerà e nel maggio 2022 giocherà addirittura in senso opposto.
La seconda fazione, quella che ha spesso in mente (anche quando non li nomina) gli anni Settanta, sostiene invece che siamo solo agli inizi di una fase di inflazione lunga e “distruttiva”. Diversamente dal decennio scorso, questa volta non è esplosa solo la base monetaria, ma anche l’offerta di moneta. Il denaro di nuova creazione non ritorna più alle banche centrali che l’hanno creato, ma viene fatto piovere direttamente sull’economia. Come se non bastasse, le politiche fiscali, nel decennio passato complessivamente composte (quando non austere), si sono fatte espansive come in tempo di guerra e non mostrano molto timore nel volere proseguire su questa strada nei prossimi anni se perfino in Germania tutti i partiti sono ormai d’accordo nell’aumentare stabilmente la spesa pubblica.
La seconda fazione legge inoltre il rialzo delle materie prime come l’avvio di un superciclo di lunga durata trascinato da molti anni di mancati investimenti in capacità produttiva da parte delle società minerarie. E tutto questo mentre si profila un gigantesco fabbisogno legato alla transizione energetica.
Le due fazioni colgono aspetti importanti, ma la loro analisi è sfocata quando tratta l’inflazione in corso come un fenomeno unitario, temporaneo per gli uni, di lungo corso per gli altri.
Mettendo meglio a fuoco la questione, infatti, diventano ben visibili due tipi distinti di inflazione che hanno poco a che fare l’uno con l’altro. Il primo tipo lo possiamo definire inflazione da disordine ed è l’effetto diretto della pandemia. Il secondo è costituito invece da inflazione strutturale ed è l’effetto del nuovo corso delle politiche economiche, che stimolano in tutti modi la domanda aggregata e mettono vari bastoni tra le ruote dell’offerta, limitandone il potenziale.
L’inflazione da disordine è spettacolare e ne vediamo gli effetti, oltre che nelle materie prime e nei semiconduttori, nel rialzo dei prezzi delle attività che riaprono o nella difficoltà, in America, a trovare personale a qualsiasi livello senza fare leva sulla retribuzione. Il disordine è evidente nel fatto che ci sono da una parte otto milioni di disoccupati in più rispetto a inizio 2020 e dall’altra aziende che limitano la produzione perché non hanno abbastanza personale e perché hanno le scorte a zero.
Questo disordine, simile a quello che si verifica dopo un uragano o un terremoto, verrà gradualmente riassorbito. I sussidi straordinari di disoccupazione scadranno in settembre e milioni di persone si ripresenteranno sul mercato del lavoro, attenuando la spinta al rialzo delle retribuzioni. I programmi globali di aiuti pubblici al settore dei semiconduttori affinché aumenti la sua capacità produttiva sono pari al Pil del Portogallo, tanto che nella seconda metà del decennio è possibile che ci sia sovrapproduzione e pressione al ribasso sui prezzi. Insomma, come dopo ogni catastrofe naturale, molte cose torneranno alla normalità in tempi ragionevoli, anche se, essendo questa volta la catastrofe globale, più lunghi del solito.
Dell’inflazione strutturale, invece, vediamo per ora solo lo scavo delle fondamenta, ma i lavori procedono di buona lena e il progetto è grandioso. Dopo le recessioni degli ultimi 40 anni, secondo un calcolo di JP Morgan, l’output gap si è chiuso in 30-40 trimestri. Questa volta già alla fine di quest’anno, ovvero dopo solo 6 trimestri, i paesi sviluppati avranno completato il riassorbimento delle risorse produttive lasciate inutilizzate dalla crisi.
Dal canto suo la Commissione Europea stima che anche per l’Europa, la regione che si ripresenta per ultima all’appuntamento con la ripresa, l’output gap sarà già azzerato l’anno prossimo in quasi tutti i paesi dell’eurozona (per l’Italia rimarrà ancora un punto e mezzo di Pil).
Una volta colmato l’output gap, la crescita non inflazionistica è solo quella determinata dall’aumento della popolazione (che è praticamente terminato in tutto il mondo, con l’esclusione dell’Africa) e dall’aumento della produttività, che da molti anni, smentendo i cantori dell’innovazione tecnologica, è fermo su scala globale, secondo le stime del Conference Board (la Confindustria americana), all’1.7 per cento annuo. Poiché l’intenzione è quella di crescere ben oltre questo livello per molti anni, è evidente che le pressioni inflazionistiche cresceranno. E qui non parliamo dei prezzi di questo o di quel settore, come facciamo con l’inflazione da disordine, ma di un rialzo del livello generale dei prezzi.
Abbiamo scritto in passato che l’output gap è un concetto elegante che si presta però a ogni genere di abuso. In particolare, dopo 40 anni di lotta alla rigidità del lavoro, è sempre meno chiaro il confine tra chi lavora e chi è semioccupato, disoccupato o precario o irregolare. È sempre più difficile, in altre parole, calcolare quanto di più si potrebbe produrre con le risorse umane disponibili perché si ha un’idea imprecisa di quante siano queste risorse.
In America si è deciso quindi di smettere di basarsi sul numero di disoccupati e di adottare invece gli inoccupati in generale come unità di misura delle risorse inutilizzate. In questo modo si definisce inutilizzato non solo chi è iscritto alle liste di disoccupazione ma anche chi sta a casa per sua scelta. È chiaro che, diluita in questo modo, la misura delle risorse inutilizzate diventa di fatto irrilevante ai fini della politica monetaria. In pratica si è deciso di ignorarla e di procedere a stimolare l’economia alla cieca, contando di sapere frenare in tempo quando, prima o poi, si inciamperà sull’inflazione.
L’Europa, che ama invece viaggiare sempre con il freno a mano tirato, conserva come un feticcio il concetto di output gap, che serve alla Commissione per tirare le orecchie ai governi dei paesi che, a suo avviso, intendono crescere troppo.
Ai nostri fini, quello che conta è che nei 40 anni passati si è sempre cercato di prevenire l’inflazione frenando in anticipo, quando cioè l’output gap non si era ancora chiuso completamente. Questa volta, soprattutto in America, l’intenzione è di procedere spediti nella terra incognita dell’output gap positivo (quella cioè in cui si cresce al di sopra del potenziale) e di restarci a lungo.
È su questo, più che sulle incredibili escursioni del prezzo del legname di queste settimane, che i mercati dovrebbero riflettere, soprattutto in sede di elaborazione strategica. È l’inflazione strutturale e sistemica che conterà nei prossimi anni. Ed è bene chiarire che il fatto di essere entrati in una fase di sperimentazione dei limiti della crescita e della resistenza al surriscaldamento non implica necessariamente che avremo l’inflazione presto, ma implica piuttosto che l’avremo sicuramente.
Venendo al breve termine, i dati macro sono un po’ meno brillanti di come si era anticipato ma rimane intatta l’idea di un 2021 di fortissima ripresa globale. Le banche centrali discutono di quando iniziare a discutere sul quando preannunciare con 6 mesi di anticipo la graduale riduzione degli acquisti di titoli. In pratica si limitano a seguire quello che succede.
Le Borse sono in fase di consolidamento e riflessione. Si tratta di continuare a sgonfiare le componenti più speculative senza danneggiare troppo gli indici. La volatilità è destinata a rimanere vivace e a continuare a esercitare la sua funzione positiva di freno agli sbilanciamenti eccessivi. Il contenimento della propensione al rischio induce tra l’altro a limitare gli afflussi puramente finanziari verso le materie prime, anch’esse in fase di consolidamento. La tendenza positiva di fondo rimane intatta.